Giochi d’amore
La dimensione della collina, vissuta ora nella sua totalità grazie al trasferimento a Mongreno, annulla di colpo la distanza tra il pittore e la natura, che adesso non viene più soltanto contemplata e ritratta (come nel caso delle precedenti vedute paesaggistiche) ma afferrata e penetrata a un livello totalizzante. È la vita in collina a stimolare la formazione del cerchio e della spirale, la stessa collina che, dopo i primi anni di osservazione e studio, nella seconda metà degli anni sessanta spingerà Ruga a osare nuovamente un segno in grado di sorreggere la figura umana. Le opere dell’intero decennio restituiscono la dimensione di un uomo immerso nell’elemento naturale in modo multisensoriale: lo sguardo proiettato nella selva di segni è, di fatto, una visione soggettiva attraverso i boschi, le vigne, gli arbusti; i macro- scopici insetti evocano l’invadenza del loro brusio; la compenetrazione di segni biomorfi e figure umane allude a una contaminazione tattile e olfattiva tra diversi elementi del creato.
Il cerchio e la spirale ora fanno da trama a una sorta di nebulosa catalogazione di questi elementi eterogenei, che sembrano cercare un equilibrio nel frenetico moto di una perpetua danza.
Richiusi in sé stessi, formano un cerchio i corpi nell’atto dell’amore. Questi amplessi trovano svariate collocazioni nello spazio del dipinto: possono moltiplicarsi evocando i covoni nei campi, oppure inserirsi in un unico grande cerchio, che sembra chiaramente riferirsi all’antica figura dell’Ouroboros, il serpente che si morde la coda in un atto di rigenerazione perpetua.
I nudi femminili iniziano qui a identificarsi con il paesaggio naturale, all’insegna della possessione folle. La figura di donna, fortemente espressionista, evocata in maniera drammatica e magistrale da poche pennellate nere che ne sintetizzano la potenza al contempo plastica e grafica, viene ritratta nuda nei campi: urlante, in fuga o gravida.
Questa duplice relazione donna-natura/sesso-danza, sembra trovare un contraltare in un analogo rapporto di interdipendenza feconda, quello fra l’insetto, i fiori e l’erba. Sulla tela, la sublimazione della folle danza delle api alla ricerca del nettare trasfigura in ondate spiraliformi di macchie di colore e segni vibranti. Da un soggetto all’altro, è tutta questione di metamorfosi dei segni, quegli stessi segni di cui Ruga si è impadronito, proprio come un linguaggio, nella fase astratta dei primi anni sessanta. Le pennellate si animano ora per dare vita a vere e proprie epifanie di figure e paesaggi familiari: le vigne, i campi, i frutteti, qualche uccello, ma anche esseri inquietanti che incombono in uno spazio amorfo: insetti-mostri dai volti minacciosi.
Il cerchio è dunque quello metaforico della vita, in cui accanto ai giochi d’amore c’è spazio anche per i giochi di ruolo o, per meglio dire, di potere: appaiono per la prima volta le figure dei vescovi, ripresi più volte negli anni a venire, che si stringono le mani in un girotondo inquietante.
– Luca Bochicchio (2021). Angelo Ruga. Sulla soglia del labirinto. Pistoia: Gli Ori. pp. 83-85.
Il primo corpus importante di opere modellate in gres risale al 1979 e include i precoci studi sui Giochi d’amore. Questa ricerca, già avviata in numerosi bozzetti e studi su carta e su tela, due anni dopo si concretizza nell’affascinante e potente serie di piccole sculture in cui le coppie di corpi, maschio e femmina, si avvinghiano in una danza/lotta, contesi nel desiderio erotico. La violenza del linguaggio espressionista emerge qui in tutta la sua forza, poesia e dolcezza. Osservando queste figure urlanti di piacere e dolore, tornano alla mente i corpi monchi e deformi dipinti da Egon Schiele all’alba del Novecento. In questo periodo si collocano anche alcune significative figure umanoidi primordiali: uomini e donne definiti da un modellato rude, che sembra emergere dal magma primordiale della terra, sottolineato dal trattamento cromatico con ossidi e smalti sui toni del bruno e del rosso cupi.
– Luca Bochicchio (2021). Angelo Ruga. Sulla soglia del labirinto. Pistoia: Gli Ori. pp. 175-177.